VIGO DI CADORE “CUORE” DELLA FORTEZZA “CADORE-MAÈ”
Visitabili le opere militari della Grande Guerra recentemente ripristinate con il Progetto Interreg III  “I luoghi della Grande Guerra in Provincia di Belluno” e gli apprestamenti in caverna del “Vallo Alpino del Littorio”.

Di Walter Musizza e Giovanni De Donà

(Giovanni De Donà, di Vigo di Cadore, e Walter Musizza, docente goriziano sono da tempo appassionati studiosi di storia cadorina. In circa vent’anni di fattiva ricerca e mutua collaborazione hanno pubblicato numerosi saggi e ricerche, tra cui ricordiamo “Le fortificazioni del Cadore” in 4 volumi (1985-90), “Strade e sentieri di guerra in Cadore, Ampezzano e Comelico” (1988), “Appunti storici sui Pievani di Vigo” (1991), “Baion, una casera, un rifugio” (1992), “Carducci e il Cadore” (1992), “Nel Cadore con don Bosco” (1992), “Cridola 1944-45” (1996), “Lorenzago nell’anno dell’invasione 1917-18” (1997), “L’Oltrepiave nel Risorgimento nazionale 1848” (1998), “Alpini ed Artiglieri in Cadore” (1998), “Dalle Dolomiti al Grappa – La ritirata della IV Armata dal Cadore” (1999), “S. Antonio Abate di Laggio 1454-2000, storia di una chiesa, di un Capitolo, di un paese”  (2000), “1848 - Una breve primavera di libertà” (2000), “Il Gruppo Alpini di Lozzo di Cadore 1938-2000” (2001), “Ali di guerra sulle Dolomiti” (2002) e “Margherita una Regina sulle Dolomiti” (2002), “Alpini cadorini sul fronte greco-albanese” (2003), “Caro vecchio paese” (2003), “Il compagno Ludi – autobiografia di un partigiano sudtirolese” (2005), “Gente d’Oltrepiave” (2005), “Guerra e Resistenza in Cadore 1943-1945”(2005), “La montagna veneta nelle panoramiche della Grande Guerra” (2006), “Personaggi e storie del Cadore e di Ampezzo” (2007).
Tra il 1989 e nel 2006 hanno realizzato pure dei documentari televisivi di storia e in particolare sulle fortificazioni del Cadore nella Grande Guerra e nella Seconda Guerra Mondiale, per la cui valorizzazione storica e turistica da tempo si battono con molti articoli su diversi giornali e riviste.
Collaborano a molte testate locali, come “Il Corriere delle Alpi”, “L’Amico del Popolo”, “Il Cadore”, “Sote le Crode”, “Dolomiti”, “Le Dolomiti Bellunesi”, “Bellunesi nel Mondo”, ma sono presenti spesso anche su periodici nazionali, quali “La Rivista del C.A.I.”, “Protagonisti”, “Aquile in guerra” e “Sudtiroler Landesarchiv di Bolzano”.
In questi ultimi anni hanno collaborato come consulenti con la Regione Veneto in programmi europei per  la catalogazione delle opere militari della Grande Guerra nei comuni di Vigo, Lozzo, Lorenzago e Auronzo, mentre per il Comune di Vigo hanno realizzato l’“Itinerario storico del M. Tudaio”.
Hanno offerto la loro consulenza al Comune di Vodo per la valorizzazione delle opere militari nel territorio di quel Comune, sono stati membri del Comitato Scientifico all’interno del Progetto a regia regionale Interreg III Italia-Austria 2000-2006 “I luoghi della Grande Guerra in Provincia di Belluno, interventi di recupero e  valorizzazione del Parco della Memoria”  (cod. VEN222001) e al Progetto a regia regionale  “Il Museo diffuso del Grappa dal Brenta al Piave (cod. VEN222047) per l’allestimento delle mostre e cataloghi “Aquile e Leoni” e “La montagna veneta nelle foto panoramiche della Grande Guerra”.
Nel 2002 sono stati insigniti del “Riconoscimento di merito A.N.A. Cadore”).

LA FORTEZZA CADORE-MAE’
La strategia difensiva di fine ‘800 in Cadore riposava su una tradizione medievale, poiché nei secoli precedenti la Serenissima Repubblica di Venezia aveva già individuato nella Chiusa di Venas e nella Chiusa di Lozzo due baluardi difensivi in grado di assicurare la resistenza del centro del Cadore e della sua capitale Pieve, e veniva inoltre avvalorata dall’eroica resistenza organizzata da P.F. Calvi nel 1848.
Dopo l’annessione del Veneto al Regno d’Italia, per impulso soprattutto dei Generali Pianell e Cosenz, andò sviluppandosi una serie di modeste difese sui colli di Vigo di Cadore. Qui, ad un’altitudine di circa 1000 metri (Col Piccolo, Col Rive, Col Tagliardo, Col Ciampon) furono costruite delle postazioni per cannoni da campagna con relativa strada d’accesso sul fronte di gola, miranti a battere la sottostante strada ed in particolare il nodo nevralgico di Treponti, dove venivano a convogliarsi tutte le supposte provenienze nemiche dalla Val Ansiei e dal Comelico.
Successivamente, verso il 1880, si preferì concepire lo sbarramento in zona più arretrata, presso Pieve e Tai di Cadore, per controllare le penetrazioni nemiche sia dal Centro Cadore, sia dalla Val Ansiei, prima che queste potessero trovare agevoli sbocchi verso Longarone e Belluno.
Fu così completato, tra il 1882 e il 1896, il cosiddetto Campo trincerato di Pieve di Cadore, che comprendeva i forti di Batteria Castello, Monte Ricco e Col Vaccher presso Pieve e Tai di Cadore, con tutta una serie di strade di accesso e di cintura (Pozzale-M.Tranego, Costapiana-S.Dionisio, S.Anna-Col Maò), nonché con i ricoveri alpini su Pian dei Buoi e a Val Inferna, nei pressi di Casera Razzo.
Se i forti di Batteria Castello e Monte Ricco puntavano i loro cannoni di medio calibro verso Domegge e l’Oltrepiave, il forte di Col Vaccher, molto vasto e complesso, volgeva le sue 4-8 bocche da fuoco verso la Val Boite.
Il compito precipuo di tale campo non era esclusivamente difensivo, bensì pure controffensivo, essendo ad esso devoluta l’assicurazione di uno spazio protetto, la zona di Pieve appunto, in cui un corpo d’armata potesse convenientemente organizzarsi per puntare poi alla volta di Franzenfeste (Fortezza). Ciò per tagliare con una rapida penetrazione in direzione ovest quel pericoloso cuneo trentino che dal 1866 si palesava come assillante remora per ogni nostra offensiva in Friuli e sull’Isonzo, fatalmente esposta ad uno scontato aggiramento in seguito ad offensiva austriaca verso Verona e il lago di Garda.
Si trattava peraltro di costruzioni in muratura ordinaria, facilmente dominabili dalle alture circostanti e non in grado, colle loro traverse cave ben individuabili nel bosco, di proteggere convenientemente le bocche da fuoco. Costruite con criteri quasi medievali (fossato, ponte levatoio, caditoie, ecc.), esse finirono col risultare ben presto obsolete alla luce dei grandi progressi ossidionali verificatisi in Europa alla fine del secolo e la loro ultimazione coincise con la profonda crisi morale ed economica sofferta  dall’Italia dopo il fallimento di Adua (1896), che stornò da questi impianti le risorse finanziarie necessarie per tempestivi adeguamenti e ristrutturazioni.
Solo a partire dal 1904, con l’arrivo di altri fondi e grazie al fiorire di nuovi studi strategici, il Cadore ritornò in primo piano nella concezione strategica difensiva nazionale. Dopo lunghe diatribe tecniche, cui parteciparono anche S.A.R. il Duca d’Aosta, il Ministro della Guerra Spingardi, il Capo di S.M. Pollio, l’Ufficio Scacchiere Orientale e gli Ispettorati di Artiglieria e Genio, furono individuate alcune posizioni particolarmente utili per battere le sottostanti vie di comunicazione.  Vennero così costruiti dei potenti forti corazzati, e precisamente due “opere basse” a Col Piccolo presso Vigo e a Pian dell’Antro presso Venas, e tre “opere alte”, rispettivamente su M.Tudaio, Col Vidal e M. Rite. Tali realizzazioni rispondevano alla teoria dei forti corazzati allora imperante in Europa e patrocinata in Italia dal Gen. E. Rocchi: serviti spesso da strade d’accesso ardite e costose, frutto del lavoro di migliaia di soldati del Genio, ma anche di impresari e manovali civili, erano impostati su batterie in cemento armato dotate di cupole girevoli mod. Armstrong in acciaio-nichelio per cannoni da 149 A, atti a colpire obiettivi fino a 14 chilometri di distanza e virtualmente refrattari a qualsiasi offesa nemica. Ogni batteria corazzata era poi sussidiata da una serie di caserme, depositi, laboratori scavati nella roccia sottostante ed in grado, tramite replicate cinte difensive, osservatori complementari e difese accessorie, per lo più in caverna, di assicurare l’impermeabilità dell’intero forte nei confronti di ogni possibile attacco nemico, garantendo il suo funzionamento ad oltranza, perfino in caso di completa occupazione nemica delle valli sottostanti. Le guarnigioni di circa 300-500 uomini disponevano di ricoveri, pozzi, dotazioni e scorte per mesi, cosicché era prevista la completa operatività anche in caso di condizioni meteorologiche del tutto avverse.
Venne dunque a costituirsi un complesso e singolare reticolato fortificatorio, comprendente i vecchi impianti di Pieve, declassati ben presto a magazzini e prigioni, ed i nuovi forti d’alta quota, con due estreme propaggini, individuate rispettivamente sul M.Miaron, sopra il passo della Mauria, dove fu realizzato un appuntamento in grado di  dirigere, tramite collegamenti telefonici ed ottici, l’azione dei cannoni del forte di M.Tudaio contro le provenienze dalla Carnia, e a Col Pradamio, scelto per la realizzazione di un appostamento sopra la strada Longarone-Zoldo. Per indicare l’estensione di siffatto apparato difensivo e la sua azione diretta soprattutto sul Cadore e sulla Val Maè, fu adottata e comunemente usata per l’intera durata del primo conflitto mondiale la dizione di Fortezza Cadore-Maè.
Allo scoppio però della guerra siffatto apparato difensivo, forte di 73 ufficiali, 4000 uomini di truppa e 92 cannoni, con notevoli riserve e munizioni, si palesò inutile e non in grado di incidere attivamente sulle operazioni in corso sulla linea di fronte, dove non arrivava la gittata dei suoi cannoni. Le nostre truppe della IV Armata (C.te Gen. L. Nava prima, Gen. M.N. di Robilant poi) poterono contare su tali forti solo come patrimonio difensivo nell’eventualità di cedimento inopinato del fronte (si pensi per esempio alle contingenze della Strafexpedition del 1916) o, sempre più spesso con l’andare del tempo, a doviziosa riserva di uomini, cannoni, mitragliatrici, granate e materiali vari da dirottare verso le esigenze del fronte, soprattutto giulio. Cominciò quindi un lento stillicidio di prelevamenti che finirono coll’indebolire l’intera struttura, inizialmente affidata al comando del Gen. G. Venturi, e col ridurla in cattive condizioni di efficienza materiale, oltre che di inadeguata tensione strategica e tattica.
Comandata nei frenetici giorni del dopo Caporetto dal Gen. A. Marocco, la fortezza non venne mai investita di una funzione chiara ed univoca, sottostando spesso alle diverse e fluttuanti concezioni del Capo di S.M, del C.te la IV Armata (Gen. M.N. di Robilant), del C.te del I Corpo d’Armata (Gen. S. Piacentini).
Essa fu abbandonata anzitempo con limitati danneggiamenti alle strutture, senza poter sviluppare un’adeguata azione di fuoco prima e durante i disperati conati difensivi delle nostre truppe in Centro Cadore e Val Boite.