IL CAPITANO FERDINANDO PECCO

PADRE DELLA  MODERNA FORTIFICAZIONE CADORINA
Il Cavaliere Ferdinando Pecco (1864-1929), ufficiale del Genio, nativo di Ivrea, dopo aver lavorato alle fortificazioni di Bardonecchia negli anni 1888-90, ad Ady-Caiè (Eritrea) nel 1896, alle batterie e alle interruzioni stradali della Val d'Aosta negli anni 1900-04, fu inviato nell'aprile del 1905 in Cadore col grado di Capitano.
Quale Comandante della 3a cp Minatori del 5° Regg. Genio egli avrebbe dovuto occuparsi della costruzione del forte di Col Piccolo.
Il Pecco fece appena in tempo a compiere il suo esemplare studio sul Tudaio, inviato alla Sottodirezione del Genio di Belluno il 29 settembre del 1908, che l'imprevisto lo chiamò tosto all'altro capo della penisola. In occasione del terremoto calabro-siculo del dicembre 1908, egli fu infatti inviato, al comando di due cp. Minatori sul luogo del disastro a Reggio, ove compì intero il suo dovere, segnalandosi tra l'altro per uno studio sui fabbricati della città, pubblicato nel 1910.
Ultimato il suo servizio in Calabria si vide affidata di nuovo la Sezione di Vigo. Forte delle esperienze acquisite in loco, impose ai vertici militari la costruzione dei forti di M. Tudaio e di Col Vidal, mentre autentici capolavori furono due incredibili strade da lui progettate, una fino alla vetta del Tudaio (m 2114) della lunghezza di 8 km, e l’altra fino al Col Vidal, lunga ben 18 km. A queste imponenti realizzazioni si aggiunsero altre, come le strade militari di Misurina, Casera Razzo, M. Miaron, nonché caserme, ricoveri e osservatori nella zona di Antoia,  Pian dei Buoi e Forc. Losco.
Nominato Maggiore, dopo anni di paziente lavoro, nel 1911 venne inquisito, denunciato ed imprigionato per  una  serie  di  gravi  accuse,  tra  le  quali inettitudine nella costruzione degli impianti ed interesse privato negli  atti contabili. 
Tutti i cadorini impegnati direttamente nei lavori si strinsero intorno al  "loro" Maggiore,  portando ai vari processi tenutisi a  Padova  e Verona  una messe enorme di testimonianze,  miranti a dimostrare l'onestà e la competenza dell'accusato. Tutto finì nel 1914, quando la commissione d'inchiesta di Verona riabilitò completamente il Pecco, chiamato di lì a poco, nel  corso della Grande Guerra, a ricoprire ruoli eminenti sul fronte carnico, fino a guadagnarsi il grado di Generale.
Tali spiacevoli  esperienze  segnarono  profondamente l'ufficiale piemontese, ma esse significarono anche enormi ritardi nell'ultimazione delle nostre difese. 
Altre persone, altri Colonnelli e Generali subentrati nei lavori e nell’utilizzazione dei forti, non seppero nel 1917 far fruttare  un  così grande patrimonio di sacrifici e competenza, tradendo la fiducia e la speranza che l’intera nazione aveva riposto in siffatti impianti, presunti imprendibili.

 

NELLA VALLE DEL PIOVA SUI LUOGHI DEL RISORGIMENTO NAZIONALE DEL 1848
LA BATTAGLIA DI SELVA E RINDEMERA, DOVE L’ARDORE POPOLARE VALSE PIU’ DI OGNI STRATEGIA

“28 maggio 1848 - Pochi dei nostri in eroica pugna fugarono più di mille austriaci”

Sebbene Calvi, fin dal suo primo arrivo in Cadore il 21 aprile 1848, d’intesa con Luigi Coletti e con altri maggiorenti cadorini, avesse delineato una precisa strategia difensiva contro la reazione austriaca, sfruttando appieno le potenzialità del teatro strategico dolomitico e predisponendo accuratamente sbarramenti e contromosse tattiche lungo tutte le direttrici della prevista avanzata nemica, è indubbio che solo con un’entusiastica e capillare risposta popolare, capace di coniugare altruisticamente e sinergicamente entusiasmo e calcolo, si poteva sperare di far fronte in qualche modo alla formidabile macchina da guerra diretta dal Gen. Von Welden verso il Passo Mauria e Casera Razzo ed affidata soprattutto all’iniziativa del Cap.Oppel.
Quanto contasse la vigilanza e l’iniziativa delle guardie civiche cadorine nei frangenti più imprevisti e soprattutto in assenza di Calvi, cui non si poteva certo chiedere ubiquità ed onnipresenza, è dimostrato proprio dalle stesse circostanze che portarono allo scontro di Rindemera e dalle sue stesse modalità di svolgimento.
In Oltrepiave già il giorno 26 maggio era giunta voce delle mosse austriache a Sauris e verso l’altopiano di Razzo, cosicché la mattina del 27 furono inviati in perlustrazione alcuni uomini del posto, una decina circa.
Alle 11 costoro, dopo aver percorso tutta la valle del Piova, giunsero alla malga di Razzo coll’intento di esplorare l’intero altopiano e di accertare l’eventuale presenza in zona di reparti austriaci. Appena arrivati entrarono nella vecchia casera e accesero pure il fuoco, ma, fatto un giro intorno alla malga, notarono delle impronte fresche sulla neve, per cui due coraggiosi, certi Da Rin Chiantre e Coronin, furono incaricati di portarsi verso “Mediana” ed appurare la situazione. Poiché essi tardavano a ritornare, un compagno uscì per andare loro incontro, ma, avvistati gli austriaci in arrivo, mise subito all’erta i compagni.
Il gruppo si diede naturalmente a fuga precipitosa e solo una volta arrivato alla “Federata” osò guardarsi indietro, giusto in tempo per notare una lunga fila di tedeschi circondare la casera e la malga, tenendo in mezzo i due cadorini prigionieri. Ben consci di non poter far nulla sul momento per loro, i compagni più fortunati si precipitarono di corsa attraverso il piano di “Ciampigotto”, giù per “Roda” e per “Antoia”, arrivando ansanti ed emozionati a Laggio sull’imbrunire. L’allarme si diffuse immediatamente in tutto l’Oltrepiave e un frenetico scampanio, propagatosi ben presto in ogni recesso della valle, indusse anzitutto ogni famiglia a mettere in salvo le cose più care.
Secondo il ricordo di Venanzio De Donà, “testimonio presente in azione allora d’anni 22”, la notizia dell’approssimarsi degli austriaci  giunse invece a Lorenzago tramite staffetta da Forni verso le 4 pomeridiane del giorno 27, gettando il paese nello sconforto: la maggior parte dei militi di Lorenzago e Vigo infatti erano tutti al “Passo della Morte”, mentre quelli di Lozzo, al comando di don Zanetti, si trovavano alla “Chiusa” di Venas.
Intanto il “Comitato” di Pieve, informato dalle staffette che il nemico stava penetrando in Cadore per la valle del Piova, aveva ordinato al Capitano Mistrorigo, che si trovava ad ispezionare le difese nella valle dell’Ansiei, oltre Auronzo, di provvedere alle più urgenti necessità. Costui inviò allora in Oltrepiave 22 auronzani al comando di Giosafatte Monti, già sergente dell’Austria,  e di Leopoldo Vecellio, che alle 10 di sera del 27 erano già a Pelos per unirsi agli altri 28 uomini già radunatisi in Oltrepiave. Tutti assieme, cantando inni popolari e al suono d’un vecchio tamburo, s’avviarono immediatamente verso la valle del Piova, mentre intorno echeggiavano grida festose: “Viva l’Italia! Viva Pio IX!”.
In quella notte serena di maggio, con la luna che, quasi al suo colmo, spuntava dall’altopiano di “Zergolòn”, il piccolo drappello di patrioti, coi suoi poveri fucili e con ben in vista il ramoscello d’abete sull’ala destra rivoltata del cappello, procedeva lungo la nuova e bella strada incontro al nemico, conscio di avere su di esso un unico vantaggio: la conoscenza dei luoghi. E proprio per il timore di inoltrarsi in un territorio sconosciuto ed ostile di notte, oltre che per la stanchezza, gli austriaci, ancora memori delle formidabili valanghe di sassi provate in precedenza al “Passo della Morte”, avevano deciso di rimandare all’alba la discesa verso Laggio: un ritardo esiziale, giacché, se avessero anticipato la mossa, avrebbero sorpreso ed annichilito senz’altro ogni difesa cadorina fino a Pieve.
A Razzo Oppel aveva deciso di sostare il pomeriggio del 27 e la notte sul 28, probabilmente incerto se perseguire la soluzione della Val Piova o tentare invece la carta della Val Frison. Durante il pernottamento, molti soldati dormirono nella casera e nella malga, altri improvvisarono dei bivacchi all’addiaccio, accendendo falò ed adoperando come legna assiti ed utensili della casera. I due prigionieri cadorini nel frattempo venivano interrogati e minacciati: ad Oppel interessava conoscere soprattutto l’entità delle forze degli insorti, la qualità del loro armamento, l’esatta ubicazione delle forze del Gen.Durando, che si diceva essere ormai prossimo e temibile. I nostri, impauriti e chissà con quale vocabolario misto di italiano e di tedesco, assicurarono che in Cadore non c’erano né Piemontesi né Romani e pare che il Da Rin Chiantre arrivasse a dire che i cadorini non avevano a disposizione che pochi fucili “da uccelli”.
I 50 cadorini, giunti all’alba del 28 in “Cima Losco”, avvistarono gli austriaci che discendevano in fila lungo il sentiero innevato di “Roda”, avendo come guide forzate i due prigionieri di Vigo. Il Monti però, non ritenendo il luogo propizio alla resistenza, preferì retrocedere immediatamente fino a “Selva”, dove dispose i suoi in ordine di battaglia, utilizzando pure i 40 auronzani appena arrivati di rinforzo dal “Passo della Morte”, condotti da Vigilio Da Vià di Vallesella.
Gli austriaci, discesi già in “Antoia”, stavano avanzando tranquilli per la valle, speranzosi ormai di avere una strada in ogni senso in discesa, allorché, verso le 7, furono accolti all’inizio dei prati di “Selva” da un “Alt!”, che li indusse a fermarsi immediatamente serrando le fila, e quindi da una scarica di fucileria. Il Monti infatti aveva schierato bene i suoi, dislocando alcuni buoni tiratori  sulla dorsale del monte, a sinistra, e pochi altri al di là del Piova, mentre i più stavano al centro. Bastarono quei primi colpi, al di là delle perdite subite, a persuadere gli austriaci che si trattava anche di “stutzen” e non solo dei dichiarati “fucili da uccelli”, per cui sfogarono subito la loro rabbia sul mendace testimone, uccidendolo.
Intanto alla prima scarica essi, vinta l’iniziale sorpresa, avevano risposto con un “vivissimo fuoco di pelottone” e si erano quindi velocemente distesi a catena sopra e sotto la via, dalle falde del monte alle sponde del torrente. Furono usati pure dei “razzi alla congrève”, in pratica piccole bombe, che però non raggiunsero il bersaglio e suscitarono risa di scherno tra i patrioti cadorini. Oppel cercò di forzare l’ala sinistra dello schieramento cadorino e di aggirare il nucleo centrale della difesa con una colonna fatta salire a destra,  e la manovra sembrò riuscire. Già erano caduti due auronzani e il tamburino era ferito, per cui il Monti decise di retrocedere ancora., dopo aver ordinato di sbarrare la strada abbattendo  parecchi alberi del bosco di “Stabiuco”.
Egli riconobbe il sito più adatto per la resistenza ad oltranza in prossimità del cunettone sulla vecchia arteria della Val Piova, situato vicino all’attuale ponte sul  "Rin de Mera", proprio per la particolare configurazione dei luoghi e della strada, in quel punto caratterizzata da una salita e da una accentuata ed imprevedibile curva sulla quale incombevano diversi “lavinàs”, ovvero canaloni ghiaiosi, lungo i quali i cadorini erano in grado di far precipitare tronchi e massi.
Si videro i primi austriaci avanzare cauti nel prato posto dirimpetto la curva e appostarsi intorno ad un fienile, preoccupati dello scintillio delle armi che i nostri, con continui spostamenti, furbescamente ostentavano tra gli alberi e sulle alture, simulando forze ben maggiori. Si accese ben presto, verso le ore 9, una violenta sparatoria, ma gli insorti apparivano abbastanza protetti dall’orlo della vecchia strada e da alcuni trinceroni allora improvvisati a difesa. Nonostante l’intensità del fuoco dei difensori non potesse competere con quello degli attaccanti, gli austriaci non riuscivano a progredire e la battaglia continuò incerta fino a mezzogiorno. Alle 10.30 era arrivato pure don Gio.Batta Zanetti con quelli di Lozzo, provenienti dalla “Chiusa” di Venas, e i nuovi arrivati, avanzando lungo il corso del Piova, costrinsero gli austriaci a retrocedere un poco: qui cadde, “colto da parecchie palle ed una di stutzen che gli levò il cranio”, il valoroso ventritreenne Cipriano Da Ronco.
Fu a questo punto che si vide elevarsi dal fienile una grossa e densa colonna di fumo, divampare quindi un vero e proprio incendio e affannarsi intorno ad esso i soldati. Agli occhi eccitati dei cadorini parve di vedere addirittura che degli austriaci portassero sulle spalle e gettassero quindi nel fuoco i corpi dei loro compagni morti e feriti!
Dopo un momento di tregua, che qualcuno vorrebbe interpretare come armistizio istintivo per permettere quella macabra incombenza, dalle rocce di “Rogoetto”, elevantesi a picco sulle posizioni nemiche, precipitò una gragnuola di alberi e macigni. Ciò era dovuto al provvidenziale intervento di una schiera di comelicesi, condotti da Bortolo Bettina di S.Pietro e dal dr. Paolo Agnoli: costoro, dalla valle del Frison, dove s’erano appostati per bloccare un’eventuale avanzata austriaca in quella direzione, visto che il nemico intraprendeva la direttrice della Val Piova, s’erano portati fin sulle cime di “Losco” ed avevano raggiunto in tempo le alture sopra “Rindemera”.
Il loro intervento rinnovò l’entusiasmo dei difensori e riaccese lo scontro, durato intenso fino alle 14.30 del pomeriggio, allorché gli austriaci tentarono la carica decisiva. Si sentirono suonare le trombe e un fitto calpestio sulla strada, scandito da grida risolute (“Ausfall und Sprung vorwärts!”), annunciò il tentativo di sfondamento  risolutivo. Circa 20 austriaci riuscirono a percorrere il tratto fino al cunettone, a passare il ruscello e ad investire colle baionette i difensori, ma vennero in qualche modo rigettati, costretti a rinculare, ad ostacolare i compagni che sopraggiungevano dietro, finendo col disorientarli ed indurli a retrocedere a loro volta. Secondo l’erudito A.Ronzon in questo conato offensivo sarebbe stato ferito anche il Capitano Oppel, poi finito anche lui, ancora vivo, nella macabra pira del fienile.
Poco dopo, alle 14.45, si sentì battere il tamburo e si temette un ulteriore attacco: era invece il segnale della ritirata. Gli austriaci, probabilmente smarriti per l’inopinata fine del loro Comandante, preferirono non rischiare altre perdite e due ore dopo giungevano a “Losco”, dove sostarono per un riposo, fors’anche intenzionati a tentare la valle del Frison. Ma essi venivano seguiti a passo a passo dal drappello di comelicesi, che, rinforzati da altri compagni provenienti da “Montecroce”, li seguivano nella ritirata mantenendosi alti sulle rocce e  li sottoponevano ad un continuo stillicidio di colpi isolati. Un colpo di “stutzen” più fortunato degli altri riuscì a colpire anche un Maggiore, la cui morte depresse ancor più il morale dei soldati, che, secondo alcune testimonianze, dovettero essere prontamente rianimati dall’intervento di un ufficiale, che li tolse da quell’incomoda posizione e, tra le grida di scherno e gli schiamazzi dei cadorini, li avviò subito verso “Razzo”. Qui avrebbero lasciato morti due dei feriti di “Losco”, prima di scendere a Sauris a notte avanzata.
Ad un uomo di quel paese, certo Giuseppe Petris della Porta, che al mattino aveva fatto da guida fino a “Razzo” ed ora, alle 22, al lume dei fanali, chiedeva l’esito di quella spedizione, un ufficiale avrebbe risposto laconicamente: “Viel sclecht! Viel Blut!” (“Molto male, molto sangue”).
Ma anche a Sauris giungeva l’eco di qualche fucilata sparata per intimidazione sulle alte vie, cosicché, nonostante Sauris offrisse agli austriaci il conforto etnico e linguistico dell’antica colonia tedesca in territorio italiano, gli ufficiali, provati dalla perdita di Oppel, preferirono, in un grande parapiglia, farsi indicare la strada “delle Novaries”, discendere frettolosamente per Mione nel canale di Gorto e portarsi fino a Villa Santina e quindi a Tolmezzo. Qui l’ostaggio Coronin fu finalmente lasciato libero, ma tornò a casa esizialmente minato nel fisico e nello spirito, tanto da rimanere “istupidito e quasi fuor di senno”.
La sera del 28 i patrioti cadorini poterono scendere trionfanti la valle del Piova, cantando “La bandiera tricolore / sarà sempre la più bella”, e a Laggio furono accolti con scene di giubilo dalla popolazione festante.
Purtroppo bisognava piangere 4 morti: Paolo Da Rin Chiantre, Giambattista Pais Tarsiglia e Giuseppe Da Corte Zandetina, caduti a “Selva”, e Tomaso De Florian, deceduto a “Rindemera”. In paese vennero trasportati pure due feriti, Antonio Vecellio e Cipriano Da Ronco d’Andrea, il quale morì a Vigo solo poche ore dopo.
I caduti, deposti sopra lettighe improvvisate con travi e rami d’abete, furono portati nella chiesa di S.Antonio, dove tutta la popolazione andò a salutarli ed onorarli. La lotta era ben lontana dalla conclusione, ma quella sera aveva, non solo per l’Oltrepiave, tutto il sapore di una vittoria certa ed esaustiva, nonché di un’avvenuta emancipazione morale e culturale: era anzitutto la dimostrazione che Calvi poteva contare su soldati determinati ed efficienti, non indegni davvero della sua fama.

 

I CADUTI DIMENTICATI DI CASERA RAZZO


Il 4 novembre,  anniversario della Vittoria, nelle celebrazioni ufficiali come nella stessa saggistica,pronta a fiorire puntuale attorno al ceppo allettante della ricorrenza, si dà sempre largo spazio agli eventi chiave del conflitto, indagato nei momenti topici e decisivi e intriso sempre, seppur in maniera calante rispetto al passato, da una buona dose di enfasi patriottica, se non proprio nazionalista. Le due cerniere, storiche e storiografiche, su cui far ruotare l’intero conflitto, sono naturalmente nel segno della tradizione, ovvero la resistenza sul Piave e la rivincita di Vittorio Veneto.
La pagina del lieto fine, cioè l’apoteosi catartica e risolutiva, continua ad essere rappresentata dallo sbarco entusiasmante dei nostri 1400 bersaglieri del XXXIX Btg. dell’11° Regg. dal caccia “Audace” sul molo S. Carlo a Trieste alle ore 16 del 3 novembre 1918, in mezzo ad una folla delirante in attesa del tanto atteso abbraccio della madre patria. La liberazione della città di S. Giusto, la sua “redenzione”, costituiscono un nesso unico con la corsa di quei fanti piumati che simboleggiavano il riscatto di un’intera nazione giunta finalmente alla rivincita dopo un anno di angosce e tante sconfitte umilianti, generate dal seme infausto di Caporetto e dintorni.
Eppure ancora una volta storici e politici sembrano tanto pronti ad osannare i frangenti gloriosi e gratificanti, quanto a passare sotto ingeneroso silenzio momenti tristi, umilianti o semplicemente dolorosi e difficili. Andrebbe invece ricordato che, proprio un anno prima della sua trionfale entrata a Trieste, l’XI Reggimento Bersaglieri scandì, nei primi giorni di novembre 1917, una delle sue pagine più sofferte, sacrificandosi in un’oscura ma necessaria opera di tamponamento nella zona  del Passo della Mauria e Casera Razzo, tra Carnia e Cadore, per permettere alla IV Armata del Gen. Di Robilant, in esiziale ritardo, di guadagnare in qualche modo la conca di Tai e quindi la discesa lungo la valle del Piave.
Già il 27 ottobre 1917 Cadorna aveva ordinato al Comando della Zona Carnia di proteggere il ripiegamento, con “tenacissima resistenza” ed in collegamento con la IV Armata, per Ampezzo e Case­ra Razzo, e contemporaneamente il gen. Di Robilant aveva ordinato al I Corpo d’Armata di prendere accordi con il XII e di “spingere alacremente i lavori nei pressi di Casera Razzo per sbarrare le provenienze dalla Val Frison”.
In quei frenetici giorni si arguisce che una resistenza ad oltranza in Cadore non si immaginava affatto e che la nuova partita era pensata sul Piave si, ma molto più a valle. Si trattava solo di ritirarsi presto mantenendo i collegamenti, e proprio per questo al I Corpo d’Armata era affidato il compito più impegnativo, garantire cioè l’incolumità del fianco destro dell’Armata.
Non sembrava accettare però quest’impostazione il Di Robilant che, forte dei vari progetti di resistenza gialla, azzurra e rossa stesi nei mesi precedenti credeva ancora nel parziale arretramento e nella difesa di Casera Razzo, congiuntamente alla Zona Carnia.
La sera del giorno 6 così poteva essere schematizzata la situazione del I Corpo: il grosso era raccolto nella conca di Tai, mentre tutte le batterie di campagna erano in viaggio a marce forzate alla volta di Ponte nelle Alpi; il gruppo da montagna “Cuneo” stava arrivando a Fadalto; le truppe della Fortezza Cadore-Maè erano schierate sulla linea gialla.
Quel giorno gli Austriaci della 94a Divisione del Ten. Mar. von Lawrowski invadevano tutto il Comelico e alle ore 23.30 giungevano ad Auronzo. In quella stessa mattina reparti di truppe italiane dislocati a Forcella Losco, Campo e Razzo (Btg Bersaglieri XXXIII e XXXIX dell’l1° Regg.) presero contatto a Cimaconfin, a Pezzocucco e Rementera colle avanguardie nemiche.
Il tentativo austriaco fu peraltro stornato e nello scontro rimasero morti e feriti da ambo le parti. Sappiamo che a Forcella Losco caddero un Maggiore dei Bersaglieri e 3 o 4 soldati, e che a Pezzocucco restò gravemente ferito il bersagliere Pasquale Caputo che, trasportato a Razzo, fu poi abbandonato morto tra le ceneri fumanti della casera. Gli austriaci, ritiratisi a Campo, seppellirono i loro morti su un piano digradante sotto una macchia di bosco.
Nella notte sul 7, con un termometro che segnava -12°, le truppe nemiche disseminate nella zona si raccolsero a Rementera e qui, nelle prime ore del mattino, impegnarono un nuovo e più vivo combattimento, alla fine del quale però apparivano nettamente respinte. In quest’azione morirono 7 austriaci e i loro cadaveri rimasero lì abbandonati per molti giorni; dei nostri morirono almeno 5 e parecchi feriti furono portati a Vigo, dove tra l’altro uno perì. Ma tale vittoria aveva per noi l’agro sapore dell’inutilità, visto l’evolversi della situazione nelle immediate vicinanze, al Passo della Ma uria per esempio.
Alle 5.30del 7 novembre la 94a divisione a.u., approfittando tra l’altro di fitti banchi di nebbia gravanti sulla zona, attaccò il Passo della Mauria e se il primo attacco fu respinto, ciò non avvenne per il secondo, iniziato verso le 8 su un fronte più ampio, che arrivava fino a Rementera, e che sorti l’occupazione di Col Pioi e Col Rosolo. Scendendo da quest’ultima altura il nemico catturò l’intera 9a  compagnia del LXIII btg. bersaglieri che, inviata a sostegno del fronte, aveva raggiunto alle 10.15 il passo del Landro.
Al pomeriggio di quello stesso giorno, alle ore 17 forze congiunte della 94a e 92a Divisione a.u. venivano quindi a trovarsi alle spalle delle truppe italiane schierate nella zona del Mauria, per cui solo un centinaio dei nostri riuscì ad aprirsi la strada verso Lorenzago, mentre tutto il btg Alpini “Tolmezzo”, schierato sulla linea Col Torondo - Col Magnente (a Sasso Croèra) fu preso prigioniero.
A nord di tale linea, in una vera e propria sacca, venivano a trovarsi i Btg bersaglieri XXXIII e XXXIX, incaricati della difesa di Rementera, il 3° Btg del 132° Fanteria, nonché il personale di due batterie d’artiglieria, costrette ormai a rendere inutilizzabili i propri mezzi.
I nostri si ritirarono verso Laggio e Vigo, ma a Pelos trovarono il Ponte Nuovo sul Piave distrutto e così in 4000 furono catturati dal nemico.
L’ultima resistenza in Cadore fu tentata dal Btg. Alpini “Monte Nero” e “M. Assietta” sulle pendici di M. Piduel, di fronte a Domegge, l’8 novembre. Gli austriaci, provenienti da Lorenzago, erano già arrivati alle rovine del ponte Cidolo e tentavano di passare il torrente Talagona per raggiungere Vallesella. Gli Alpini, con i 40 bersaglieri del Col. Foglia reduci dai combattimenti del passo Mauria e con alcuni cannoni resistettero fino alle ore 16 circa, allorché si ritirarono verso Longarone.
La resistenza dei nostri permise in definitiva un deflusso meno drammatico da parte della 26a Divisione e del Gruppo “Marelli”, ma l’ondata della guerra vera passò subito oltre, cannonate e fucilate lasciarono il bosco al suo silenzio e cercarono altri teatri verso Longarone, dove il Ten. Erwin Rommel (la futura “Volpe del deserto”) aveva già fissato, dopo il Matajur, il suo secondo appuntamento con la gloria.
Solo molti giorni dopo, decantatosi anche il bailamme della prima invasione nemica, qualcuno ripercorse quei boschi e trovò i sacrifici versati alle rispettive Patrie: il 20 novembre fu trovato Giuseppe De Candia, il 25 Karl Stanfner. Altri corpi, come quello del volontario alpino O. Marchetti, dovettero attendere più a lungo, anni addirittura.
A Casera Razzo, in Valdirave, su Col Pioi e sulle “Staipe” furono trovati nel primo dopoguerra altri cadaveri abbandonati, anche a distanza di alcuni anni da quei feroci combattimenti, ma il numero esatto dei caduti, feriti e prigionieri non poté mai essere calcolato. La drammaticità di quelle ore,  il disordine nei collegamenti, hanno impedito, anche  a  posteriori,  il doveroso omaggio del ricordo,  cosicché  il  pietoso ufficio  della sepoltura e della memoria è toccato ancora una volta alle donne d’Oltrepiave e al Pievano di Vigo.
Molti altri cadaveri italiani ed austriaci rimasero però, per mesi e talvolta per anni, nascosti nei boschi della Val Piova e della Mauria, e solo per pochi di  loro c’è  stata la possibilità di una degna sepoltura  nei  cimiteri  del Cadore.
Di pochissimi poi resta il nome, a comporre una triste litania che, confinata su  documenti  locali,  nessuno ha  poi avuto la voglia di divulgare oltre confine, anche in tempo di pace: Dikass e Grasso, Càslawski e Secchia, Kurz e Migliorini, Strefanko  e Valpreda sono gli oscuri internazionali eroi che  le rispettive Patrie hanno dimenticato.
Altri  hanno  avuto almeno per sé un po’ della  fama delle  epiche imprese compiute  dai  propri reparti, come al Passo della Sentinella o sul Monte Piana, dove hanno potuto forse assaporare la gloria di una lotta che  alcuni hanno  definito  “assalto al cielo”
Eppure noi pensiamo che quegli oscuri caduti in Cadore meritino ancor più rispetto ed ammirazione: il loro sacrificio è rimasto nascosto, travolto dalla drammatica scansione degli eventi e obnubilato dalla generale cattiva nomea di tutto ciò che fosse collegato a Caporetto. Ma proprio per questo la loro resistenza disperata ci sembra mirabile, meritevole tra l’altro di una medaglia, che invece non è mai arrivata e, peggio ancora, non è mai stata proposta. Forse perché la luce di Vittorio Veneto era ancora molto, molto lontana.

 

A COL PIOI LA CROCE CHE RICORDA I CADUTI DI ALLORA

“Chiamati qui al sacrificio il 7 novembre 1917 per dar respiro alla ritirata della IV Armata dal Cadore – 4 ignoti bersaglieri – a chi passa chiedono una preghiera che vinca l’oblio”. Così recita una semplice, austera croce in ferro posta in località “La Mandruta” su Col Pioi, sul luogo dove nel 1922 erano state riesumate le salme di 4 bersaglieri caduti nei drammatici frangenti della ritirata di Caporetto.

ALCUNI CADUTI DIMENTICATI DELLA RITIRATA IN CADORE:
A Venas di Cadore: Genieri Giuseppe Brassa   e Giovanni Bottelli,  del  II Regg.Genio.
A Casera Razzo: Soldato Vittorio Pietro Valpreda del 9° Fortezza, morto “per grande ferita alla testa”, riportata in combattimento a Rementera, alle ore 18 del 5 novembre.
Bersagliere Pasquale Caputo dell’11° Regg. 39° Btg., morto a Razzo durante i combattimenti del 6 novembre “da grande ferita al fianco”, ma sepolto solo il 18 dicembre perché trovato un mese dopo gli scontri e portato in paese da alcune donne di Laggio: il caduto, senza piastrina e dell’apparente età di 20 anni, fu identificato perché sul telo da tenda in cui era stato avvolto qualcuno con un lapis blu aveva annotato i suoi dati.
Caporale Michele Grasso dell’11° Bersaglieri, 10 a cp.
A Forcella  Losco: 7 austriaci tutti soldati dell’Imperial Regio Feldjäger Battaglion n.8: Drouk Rodolf, Hauli Gregor, Hobel Rochus, Koch Rupert, Krenn Karl, Loippitsch Herman e Haisr Anton.
Al Passo Mauria: Nicolaus Dudas, di Dobbiaco, Franz Kurz, Jaroslaw Mertlik, Joan Komel di Gorizia, Luigi Migliorini di Stellata (FE), bersagliere della 3a cp. del 27° Btg. dell’11° Bers.
A Domegge: Osvaldo Marchetti, Volontario Alpino del Cadore, Karl Stanfner, Giuseppe De Candia.